venerdì 18 giugno 2010

Capitolo 1, seconda puntata

[nel quale, per volontà dell’autore - nonché per modeste tracce di scherzo e dispetto – le gonadi di chi legge continueranno a frangersi spumeggianti contro le superfici giusto’appena sbozzate di quel potente frangiflutti che è l’Artificioso Stile: contro la Prosa Viola, il Lirismo Elegiaco; ma poi lo stesso – cioè l’autore – tornerà – ve lo promette! - a rocambola e grandi bevute e caciara e fragorose flatulenze; e se non è venerdì prossimo, sarà quello dopo. Ma, per ora, si continua così: uh!]

Oh, certo. Venivi spintonato fuori dalle scuole superiori innocente e Pulito e fisicamente funzionante: un corpo menefreghista del clima e delle umidità e delle bevande dannose; le sinovie viscose al punto giusto, tutto-al-suo-posto, eccetera. Da qui, sarebbe stata solamente la spirale discendente: un morbido, elegante, alle-volte sculettante scivolare per correnti leggere, giù giù verso un basso non bene identificato di pietrisco inospitale: della secchezza orale che definisce i doposbronza.

E da fuori non appariva, la magnitudo delle scosse che tu – che il tuo corpo, che la tua testa – subivi, subivate: o che ti somministravi, paziente: pervicace. Da fuori, in qualche modo, apparivi come quello-che-studiava: tutto qui. Un frammento importante della risibile, trascurabile percentuale degli studenti d’istituto tecnico a sfidare col libretto universitario in mano gli aggrottamenti - quando non le derisioni - di Professori Letterati Emeriti: quando in sede d’esame tutto – preparazione, orgoglio, immagine-di-sé – si giocava in quella frazione di secondo contro la quale, nel flickerare d’uno zigomo, si infrangeva qualunque costrutto di buona impressione avevi imbastito – una camicia pulita e stirata, dei pantaloni non mastichicchiati dall’azione congiunta e iterata di scarpe e asfalto, i capelli apposto: la barba rifilata; ma a quel Perito Capotecnico Industriale in Informatica tutto si scuoteva, pericolando. E mentre tu, parlando, costruivi strutture complesse – ammettiamolo - piuttosto pertinenti, la stessa pertinenza delle tue acrobazie verbali – così fuori luogo, agli occhi dell’emeritus - facéa sì che lentamente si tendeva – l’emeritus – fino a trasmutare in un impenetrabile solido di sospetto: in una specie di elemento di mobilio massiccio e aggettante, della freddezza dell’armadio di mogano. Tu parlavi, infervorando: e nella stanza, oltre la cattedra, s’agglomerava un nuovo, legnoso, poco rassicurante guardaroba. Ostile.

Restavano intanto delle scuole – a diradarsi tristemente, quasi innotiziabili – le cene-coi-compagni: alle quali tu eri, per’l’appunto, la mosca bianca d’una carriera universitaria carica di potenziale; e adamantino e insospettato t’ergevi sulle conversazione de’ commensali, e sul dècalage, facilissimo da individuare, tra raccontato e verità. Ché dopo il riassunto del percorso di vita, si vantava:

Quella volta, ventitré spritz!

E quando mi scolai quella bottiglia di!

E poi eravamo ubriachi marci, épperò non eravamo ubriachi marci, e siamo finiti da […]; eccetera.

Quando in realtà già dopo il vino da pasto straparlavano, vacillavano, s’instabilizzavano e – infine – fuggivano via sbronzi, o scomparivano esanimi: lasciandoti solo nella notte – e, con regolarità, così lontano dalla cinta muraria della città. Lasciandoti solo: a cercare di recuperare qualche amico, qualche amica o qualche donna-schermo con i quali bere qualcosa come-dio-avrebbe-comandato.

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