giovedì 20 maggio 2010

Non tutti gli aperitivi. Preambolo, 4/4

Un paio d’ore dopo veniamo spazzati fuori da questo bar criminale, senza etica e senza-dio, e dallo spazio porticato ad esso afferente; e ci ritroviamo a vagare in cerca di alimento ancora. Qui le cose, nella mia ricostruzione mentale, si confondono un po'. C’è stato un kebab, ad un certo punto – cfr. le macchie di harissa e salsa allo yogurt sulle scarpe – ma era già troppo tardi perché potesse sortire un qualche effetto benefico; e c’è stata una bottiglia di rosso rubata in un bar antipatico porta-a-porta col kebabbaro, con sprezzo del pericolo e mosse semi-acrobatiche e teamwork sinergico e incredibile. Consecutiva fuga nella notte ridendo.

*

Ci sono altri cambi di situazione; di prospettiva; di facce. C'è del dimenticato sicuramente, qui; e siamo infine a casa di S., stravaccati su sedie e divani che ascoltiamo musica klezmer mentre fuori, sul terrazzino microscopico dalla ringhiera di pesci di ferro battuto guizzanti con occhi-a-palla, S. ha approntato il DeutschFeuerPfanne, e cucina. Del DeutschFeuerPfanne, ovvero DFP, S. è particolarmente orgoglioso – e non solo perché, stando a lui, è l'unico in tutta Padova ad averne uno. Il DeutschFeuerpfanne è una specie di microscopico barbecue potentissimo a carbonella - ma S. vanta d'usare la coke più calorica che riesce a trovare; ha forma tondeggiante bombata ed è così nero-lucido da sembrare uno scarafaggiòtto a tre zampe; e con il DFP S. sta cucinando un'unica enorme braciola di maiale trovata nel freezer, e non scongelata: e facoltà unica del DFP – si scopre - è quella d'esser’in grado di riempire in pochi minuti di fumo acrido e grigiastro il rettangolo di cielo della strada più danarosa di Padova; la stessa via de’ gioielli et pellicce che dopo le nove di sera si ingolfa delle bici scassate degli amici degli studenti in affitto incatenate con disordine ai pali della luce e ai cestini dell'immondizia – o direttamente contro il muro e le serrande, come le nostre.

Ascoltiamo klezmer quindi, e beviamo grappa - la diabolica Storica Centenario – ché il rosso involato è finito. E’ un’ora imprecisata della notte quando S. rientra dal terrazzino piccolissimo – rientra con passo lamentoso sulla lamentosissima doina che lo stereo sta mandando: oscilla quasi funebre e con faccia mesta: rientra da solo, la braciola essendosi pare persa nel tragitto. Rientra, S.; spegne la musica di prepotenza e tira fuori da un mobiletto la scacchiera, e mentre imperioso e inevitabile dice Adesso giuochiamo al giuoco degli scacchi, i pezzi gli cadono a terra; acché mentre S. si china per raccoglierli – sono rotolati sotto da-tutte-le-parti - tutti ne approfittano per biascicare saluti e uscire di casa e fuggire giù per le scale in uno svolìo di cappotti e sciarpe e mazzi di chiavi di lucchetti di bicicletta – tutti tranne io e K.

Dove K. è ungherese – ma pensa te!; è spuntata chissà quando durante la serata: è carina di un biondo tendente con natura al fulvo e ha uno spirito in-qualche-modo perpetuamente combattivo, a causa di un ingresso nel mondo del lavoro quantomeno complicato: trascorsi accompagnando come interprete per-obbligo-di-legge cacciatori italiani in tournée di caccia in Ungheria, con eterne interminabili albe passate negli avvallamenti del terreno dell’aperta campagna ungherese, nel gelo sordo e pulsante di stivali di gomma tristemente inriscaldabili dai suoi piedini di donna: eterne interminabili albe con questi lombardoveneti a volte taciturni, a volte fin troppo compagnoni - ma in-ogni-caso ubriachi – ad aspettare il passaggio di quattro anatre stronze che non sarebbero mai passate perché comunque era davvero troppo nuvoloso per volare da qualunque parte.

S. allora ricomincia a raccontare la storia della mostra di vent’anni prima e della camomilla equivocata – più sfumate atmosfere liberty e più Arte questa volta, e un gesticolare più controllato per quanto possibile – mentre apriamo la partita. S. segue distrattamente le mie mosse: ininfluenti; è molto più bravo di me e io sono pigro e ubriaco e capisco in questo momento molto poco; segue le mie mosse con superficialità superiore mentre racconta e resoconta e ammicca resocontando e, fondamentalmente, eccetera. Finoacché in un momento di involontaria lucidità eseguo un quasi scacco non-molto convinto, ma pericoloso abbastanza. S. blocca il racconto con un taglio nétto - [...]lora ho cucinato una pasta buonissima anche se gli ingredienti erano quello che – e finalmente minacciato, ma in obbligo – e in grado - di mostrarsi nel pieno controllo della situazione, regolarizza il suo respiro su una mortale, vigile inspirazione-espirazione; riduce gli occhi a due fessure terrifiche e si concentra sulla partita: e inizia mossa dopo mossa a giostrarmi con padronanza quasi sovietica, obbligandomi nel difendermi a disegnare con i miei pezzi motivi buffi sulla scacchiera, a tentare di evitare l’annientamento; e così i miei pedoni disposti a cuore; poi a pacman; poi una greca, poi una specie di capitello dalla parte opposta della scacchiera; poi, poi.

Alla fine è un ovvio scacco matto, e io scivolo via da casa di S. lasciandolo a finire di raccontare La Più Epica E Rivoluzionaria – In Senso Strettamente Artistico – Storia Di Una Collettiva Che Però Sotto-Sotto Era una Personale, Sua.

*

Così eccomi in fine nel freddo, quasi all’alba, a girare attorno a casa e attorno al quartiere e dentro e fuori dal giardino e dietro e davanti ai garage e ancora poi in strada – in mezzo alla carreggiata - per farmela passare un po’ prima di infilarmi sotto le coperte, o tra le coperte e le lenzuola – o senza infilarmi da nessuna parte: e lasciarmi semi-svenire sul letto, vestito: ma senza scarpe, almeno: speriamo.

***

[esatto: è la fine del preambolo. A rivederci - tra qualcosa-in-più di una settimana]

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