martedì 18 maggio 2010

Non tutti gli aperitivi. Preambolo, 2/4

Questo era poche ore prima – una decina d'ore prima, o qualcosa del genere. Poi c'è stato uno zigzagare per il centro del quale – ne sono sicuro - potrei con sicurezza ridescrivere i vettori, ritracciare le trajettorie, i moventi, e le causali di spesa - soprattutto quelle. Avrei solamente da pensarci un attimo: un attimo. [Mi infilo una mano in tasca, in cerca di calore; ne pesco fuori una manciata di oggetti conglomerati tra loro, e tra di loro semi-umificati. Lungo il bordo di un biglietto del treno usato c'è un appunto a penna blu: la mia scrittura, certo, giusto un po’ più insicura del solito; ma chi è quindi che ha pronunciato la frase Sono contrario alla collettività?]

C’è stato un tentativo di cenare – o perlomeno di buttare giù un boccone, per placare stomaci ebullienti; di sicuro qualcuno – ma, ancora: chi? - diceva che sarebbe bastato trovare un posto illuminato – illuminato nel senso filosofico del termine: uno di quelli che snocciolano sul bancone alimenti più corposi delle consuete, triste patatine: solo per tamponare, comunque, perché poi è volata una promessa di cena a tarda notte a casa di qualcuno, e gli animi si sono subito chetati. Solo mettere un boccone nello stomaco: tanto sarebbe bastato.

Eravamo in piazza, e se ne discuteva; eravamo in piazza dalle sei sei e un quarto: a bere aperitivi. La netta linea tra sole e ombra, sulla trachite della pavimentazione – la linea netta tra piacevole caldino fuori stagione di-cui-sopra, e orrido ma coerente gelo di-cui-adesso – questa linea si avvicinava al nostro tavolino - a noi – pericolosamente, sempre più minacciosa man mano che il sole calava dietro le Debite; il cielo iniziava a prendere un blu intenso che in meno di un'ora sarebbe diventato quel quasi Klein scuro e prodigioso così commovente per gli spiriti alti fiaccati dalle bevande spiritose, da una giornata di virtuosi et elevatissimi studii e poi ancora da altre bevande spiritose, assunte in fine in maggior copia, e sanza rispetto alcuno: quelle appunto che si stava bevendo noi, in quel momento, disquisendo, amabilmente.

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Sicché al freddo, al nostro tavolétto e al nostro angolo di piazza e anche al proposito nutrizionale ci strappa il caso, il caso sotto forma di un modestissimo volantinèllo malstampato in Word su carta gialla: un foglietto recapitatoci da una ragazza fulminea che nessuno in realtà ha visto, ma che ha detto Ragazzi-passate-di-qua-dài - senza pausa alcuna tra le parole - e che ha pure salutato, da un qualche punto più in là, lungo la scia di foglietti gialli che stava disseminando. Così senza troppo tergiversare paghiamo il bevuto, ci alziamo, e pochi minuti dopo già siamo qualche piazza più a nord – in una piazza di solito negletta: infrequentata e infrequentabile – a bere questi famigerati, criminali, trucibaldissimi spritz a un euro: a un euro: dove lo spritz a un euro è quel burrone di plastica trasparente croccante dal quale cadendo l’etica di un ristoratore si sgretola in piccolissimi frammenti: che hanno la tessitura del nócciolo dell’oliva, le stesse rughe fortemente incise.

E solo pochi minuti dopo io e C. ci stiamo azzuffando verbalmente per non ricordo cosa, sotto ai pòrteghi di fronte a questo bar; un tossico ha fatto per un po’ delle strane piroétte lentissime su sé stesso tra le macchine parcheggiate in strada, prima di accasciarsi in uno stridìo scivoloso di unghie-su-lamiera e susseguentemente sparire - il tempo di un nostro veloce consultarsi – chissà dove. E mentre la nostra tenzone – ora in tutto e per tutto una disfida d’ars retorica degna de’ tempi antiqui – mentre la tenzone infuria, si profila all’orizzonte di ponente S., riducibile alla figura di una poco agile sintesi tra catastrofe naturale e castigo divino per eccesso d’alcolico: di una sintesi già endemicamente brilla, vagante a-caso per le vie del centro.

S. ordina uno spritz, ne beve mezzo, e inizia a raccontare: è ormai bujo, al di là dei pòrteghi.

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[ancora: domani - stessa ora, sempre qui]

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