Come ci assicurano i più autorevoli de' testi antichi - e ci confortano in questo il sapere pratico e l’uso cotidiano delle genti - non tutte le radici di ginseng recano beneficio e giovamento allo stesso modo – anzi: soltanto le radici provenienti da una remota regione del sud-est della Cina – o del sud-ovest, forse? - soltanto cioè quelle, di radici, cresciute in una regione che si raggiunge, per obbligo di stereotipo, esclusivamente dopo tortuosi e impervi percorsi di montagna, con lo scavallamento di quasi inagibili passi, l'attraversare lande fatte-apposta per l'imboscata da parte di briganti coi baffi appuntiti; il ponte di corda molle e ondeggiante sopra il baratro – con in fondo molto in basso il torrente impetuoso e le rocce aguzze e gli spruzzi diacci; e tutto un succedersi di momenti di viaggio stracciacoglioni e cavalli azzoppati e contrattempi diversi eccetera - insomma: solo da queste radici si può estrarre l'essenza vivificante e pregiatissima che tutti bramiamo. Le altre – di radici - sono perfette et esemplari nella loro inutilità.
Allo stesso modo, non tutti gli aperitivi hanno la stessa magnitudo: trovandosi una prodigiosa alea di variazione anche solo nel ristretto ambito dei quattro lati di una stessa piazza: ridotti a due e mezzo, i lati, se si contano solamente quelli sotto i cui pòrteghi occhieggiano gli stabilimenti di ristorazione.
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Ai – miei - lenti ritorni alla coscienza si associa sempre questa polta di letture e citazioni e mezze-frasi bibliofilissime che inizia a un certo punto a scivolarmi fuori dalla testa, incontrollabile: fluida, ma ora soffertamente lenta per il diaccio, come le lacrime da freddo che mi orlano gli occhi già da qualche decina di minuti. Fa così freddo – penso: con le mani in tasca e l’intera mia figura inarcata nel vento: Fa così freddo, mentre tento di sopportare il freddo: ah! E’ piuttosto aforismatico: ma posso fare di meglio - credo. Il vento notturno mi ha gelato le guance, che ho sbarbato giusto ieri: consueta scelta in controtendenza e fuori-stagione: a fine novembre non ci si sbarba, gransomaro!, in ispecie se son mesi, anni! che non lo fai; e difatti i compari mi hanno motteggiato per mezza serata, e per tentare di distrarli sono stato costretto a ricorrere a retorica e nonsenso: Hey, non si picchiano le persone con gli occhiali: figuriamoci allora quelli senza barba, no?
- Ma non ti stiamo picchiando.
- Concettualmente sì.
- Beh: forse-
Hanno desistito solo per sopravvenuto sfinimento - loro.
Minuscoli corpuscoli bianchi e ghiacciati, spigolosi e taglienti hanno cominciato a scendere – quieti all’inizio; veloci e – appunto – taglienti adesso che vengono presi ad altezza-uomo nella corrente violenta del vento. Forieri di neve.
Ma. Prima.
Prima era stata una giornata splendida. Uno squarcio improvviso e impreveduto nel plumbore uniforme degli ultimi dieci, quindici - venti? - giorni. Uno squarcio cristallino di un ciano cartuccia-di-stampante in un novembre oleosamente freddo. Eravamo fuori, io e G., con le maniche dei maglioni tirate su, le giacche tòlte e appoggiate vicino; fuori a decaparci al sole dall'umidità accumulata. Pochi nuvolotti gonfi e bianchissimi spuntavano da dietro gli edifici più lontani. A cavalcioni sul muretto - il canale sotto quasi-pulito per reazione simpatica - chiacchieravamo. G. ha appena finito di arrotolarsi la seconda sigaretta. Io tiro fuori una moretti dalla saccoccia; a qualche metro da noi, una ragazza bionda con una sciarpa lunghissima e péndula sta baruffando al cellulare.
- Accendino?
- Toh.
G. si accende la sigaretta, sbuffa fuori la prima boccata di fumo e mi passa l'accendino. Ci metto un po' a capire quale parte di dito – e di quale dito, poi? - quale parte di dito usare come fulcro per fare leva sul tappo: sembrano fare male un po' tutte.
- Ma sei capace?
- Sìssì, come no-
In realtà, no. Dietro di noi, la ragazza continua a parlare al telefono in una specie di bisbiglio agitato. Cose tipo Se anche solo percepisco che stai per ricominciare a ripetermi tutto, io vengo là e ti uccido – stanca di te?, ho detto stanca di te? Ma no; non l’ho detto. Te lo posso assì-
Eccetera.
G. si è girata a mezzo, per dare più viso al sole; ha gli occhi socchiusi mentre io riesco in fine a far forza con l’accendino e a scardinare il tappo - che però salta via e finisce direttamente in acqua; anche l'accendino mi salta via dalle mani, per la sorpresa, e con un plouf melmoso – l'ingannevole cristallinità riflettente dell'acqua – cade in acqua anch'esso. Ma negli ultimi tempi vivo un'ansia talmente grande di mimetizzare le cappelle, che in un attimo ho già cacciato la mano in una tasca della giacca; ne ho tirato fuori un tappo a corona neanche poi troppo imbarcato; sono riuscito a pensare – una realizzazione velocissima - Che culo: è di una moretti anche questo; e infine ho tappato la bottiglia, e con la bottiglia pseudo-chiusa sono ora lì che aspetto che G. si volti di nuovo verso di me, e ho questo sorriso solo un pelo più tirato del normale: ma comunque fiducioso. Lei si volta; per il vento, le si è appena spenta la sigaretta.
- Non l'hai aperta?
- No, l'ho appena-
- E l'accendino?
- L'accendino.
***
[la seconda-parte-di-quattro del preambolo, domani: qui]
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